In preparazione del III Quaresimale riportiamo questo bell’articolo di Alessandro Banfi.

Innamorati della realtà

di Alessandro Banfi

21/08/2013 – L’intervento del direttore di TgCom24 all’incontro “La realtà ci parla ancora?”

Alessandro Banfi.

Alessandro Banfi.

 

La realtà ci parla. Se sappiamo ascoltarla. Il nostro è un lavoro meraviglioso, fatto appunto di curiosità, studio e sensibilità. Bisogna acuire i sensi, non dare mai per scontata la realtà in cui siamo immersi. «Questa è l’acqua», diceva David Foster Wallace nella straordinaria lezione agli studenti laureati del Kenyon College nel 2005, pubblicata in Italia da Einaudi sotto questo titolo. La lezione comincia con una barzelletta tipicamente anglosassone, due pesci giovani incontrano un pesce più attempato mentre nuotano nel mare. E il vecchio dice ai due, buongiorno, com’è stamane l’acqua? Quando se ne va via uno dei due dice all’altro: ma che cos’è l’acqua? Il nostro lavoro è raccontare l’acqua ogni mattina, sforzarsi di percepirla, mettersi al suo servizio, in qualche modo amarla.

Non c’è vero giornalismo quando – in politica ma non solo – il pregiudizio, l’ideologia, il sentire tizio o caio nemico quindi non interessante prevalgono. Tutto invece ogni giorno va compreso, capito, studiato. Approfondito. A me non piace il giornalismo che si pone in cattedra, per cui so già che quello non ha niente da dirmi. Il giornalismo pan-giudiziario fatto di continue sentenze di carta, di nomi storpiati, di sputtanamenti. Capisco che possa funzionare in termini di audience, di copie vendute, di pubblico. Me lo dicono, diciamo così, colleghi da destra e da sinistra: se non hai un nemico contro cui sparare non puoi fare vero giornalismo.

Penso non sia così. A me interessa questo mestiere non perché mi metto l’elmetto e faccio una battaglia. Ma perché ha a che fare con la verità. Parto dall’idea che se qualcuno dice qualcosa non lo fa innanzitutto per un interesse inconfessabile e oscuro. Non parto dal sospetto. Per carità, capisco benissimo la forza di una posizione convinta e appassionata, di un punto di vista; ho cominciato vivendo l’invidiabile epopea del settimanale Il Sabato negli anni Ottanta e primi anni Novanta. Ma una posizione tagliata culturalmente vale se sa confrontarsi, mettersi in discussione, interloquire. Lasciatemi citare un episodio che ho sentito, da ragazzo, raccontare a don Luigi Giussani e che mi sono portato dentro tutti questi anni. Giussani una volta viaggiava su un aereo verso il Brasile (c’erano credo, i primi missionari ciellini) quando in uno scalo salì sul velivolo il grande filosofo Jean Paul Sartre. Destino volle che a Sartre fosse assegnato una poltrona vicino a don Giussani. Il filosofo francese chiamò la hostess e si fece cambiare posto. Non conosceva il Giuss ma non voleva sedersi accanto ad un prete cattolico, che indossava il clergyman…

Sapete come ci raccontava questo episodio Giussani? Diceva: io vi propongo una posizione umanamente migliore, più vantaggiosa di quella di Sartre, perché lui, per pregiudizio, non era interessato a incontrarmi, mentre io avrei desiderato parlargli. Questa è la posizione che ritengo anch’io dopo tanti anni la più felice, la più vantaggiosa. Parlare con tutti, non per remissione o cedimento, ma per un’occasione di verità.
Fatta questa premessa, devo dire che la domanda se la realtà ci parla ancora mi ha spinto a ripensare a questo anno straordinario che abbiamo vissuto.
Per rimanere nell’immagine di Foster Wallace, mi ha fatto riflettere sull’acqua in cui abbiamo nuotato in questo anno, un anno denso di avvenimenti davvero unici. I più clamorosi (inediti da otto secoli) quelli che hanno riguardato la storia della Chiesa cattolica, con le dimissioni di Ratzinger e l’elezione di Bergoglio. Ma è stato un anno drammatico proprio sul terreno della crisi economica e sociale del nostro continente e del nostro Paese. Crisi che è diventata subito anche crisi politica profonda.

Sulla crisi economica si è scritto e detto di tutto e anzi vi segnalo il bel libro edito dalla Bur Rizzoli, che raccoglie saggi di Sapelli, Vittadini, Borghesi, Simoncini. Ma io mi fermo a tre idee.
La prima è un’idea cara al professor Leonardo Becchetti, insegna Economia a Tor Vergata, che ha appena scritto fra l’altro sull’Avvenire: il sistema economico finanziario occidentale ha vissuto un periodo in cui hanno dominato “gli spiriti animali” della finanza e della speculazione. Dobbiamo tornare alla limitazione di questo far west, alla legge, ad una convivenza ordinata, all’economia reale.

Seconda considerazione: lo sviluppo di questi anni ha creato una disuguaglianza senza precedenti. In primavera è uscito in Italia un meraviglioso libro di Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’economia, dal tiolo chiarissimo: Il Prezzo della disuguaglianza. Prendete il Brasile, il primo dei Brics, dove accanto allo stadio costato miliardi ci sono le favelas.
Terza considerazione la prendo dal più grande sociologo vivente, Zigmund Bauman, quello della società liquida, che sostiene: il potere non risiede più nella politica. L’uomo contemporaneo non riesce più a percepire nei suoi delegati dei rappresentanti legittimi, efficaci. Pensate: i tre più grandi investitori di Wall Street potrebbero comprarsi diversi Stati. Pensate all’Europa, alla mancata politica monetaria della Bce. Pensate al proliferare dei governi di coalizione, di necessità, di emergenza.
Al fondo questa crisi economica è una crisi spirituale. Davvero dietro lo spread c’è un’emergenza uomo.

Veniamo alla politica italiana e alle cose di casa nostra. Le elezioni di febbraio sono state il trionfo di Grillo, l’affermazione di un voto di protesta molto forte. Tanto da creare una lunga situazione di stallo culminata nei tentativi falliti di promuovere al Quirinale candidati che non hanno ottenuto i voti necessari. Con la stessa riconferma di Giorgio Napolitano siamo entrati in una fase di eccezionalità, di emergenza, di unica soluzione possibile, che poi ha portato al governo di larghe intese.
Ora viviamo dei giorni di grande fibrillazione, forse siamo già alla vigilia di una nuova crisi politica, dopo la sentenza definitiva della Cassazione su Silvio Berlusconi. Ma certo al di là di come finirà questa congiuntura, il sistema politico italiano rischia di morire per non essere riuscito a riformarsi, di far prevalere l’anti politica perché la politica è stato troppo lenta nel fare il necessario per cambiare.

Ma, guardando più profondamente anche la crisi politica italiana è una crisi di fondo, di passione umana per l’impegno comune, di smarrimento di senso. C’è bisogno di fiducia, di linguaggio della verità, di spirito di servizio. E arrivo all’ultimo capitolo e quindi alle conclusioni. L’elezione di papa Francesco. Di tutto ciò che è accaduto, di quanto la realtà ci ha parlato e ci parla, mi sembra che niente sia all’altezza dell’elezione a Vescovo di Roma di Jorge Mario Bergoglio. Ho detto ai miei ascoltatori di TgCom24, , un po’ scherzando ma neanche troppo, che mi piacerebbe parlare solo di questo Francesco. Di quello che fa, di quello che dice.

La sua elezione è un fatto storicamente di prima grandezza, soprattutto per quello che rappresenta per l’uomo contemporaneo. Un fatto politico, economico e culturale di importanza eccezionale nel mondo del 2013. Un fatto che ha preso in contropiede tutti, soprattutto i cattolici e i cattolici, diciamo, di professione. Torno a quanto accennato in economia sul Brasile (e penso al viaggio del Papa laggiù per la Gmg ma anche a quello fatto a Lampedusa): questo è il Papa della disuguaglianza, cioè un Papa che ha nella sua storia l’attenzione alle Villas di Buenos Aires, alle favelas, alle periferie delle nostre metropoli. Periferie urbane ma anche periferie esistenziali.
E’il Papa che ripete continuamente il verbo uscire. Uscite dalle vostre chiese, dalle vostre organizzazioni, a volte anche autoreferenziali, dalle vostre comunità malate di mondanità spirituale. Andate fra la gente gente, fra il popolo.

L’ansia di renovatio, come l’avrebbe chiamata Jacques Le Goff storico del Basso Medio Evo, l’ansia di rinnovamenti, che ha spinto lo Spirito e i cardinali ad eleggerlo Papa e ancor prima Joseph Ratzinger a compiere lo splendido gesto francescano e umile delle sue dimissioni, arriva fino a parlare all’uomo di oggi.
Papa Francesco vuole guidare una Chiesa fatta sì di peccatori ma non di corrotti, cioè non vuole una Chiesa che si chiuda nella sua presunta superiorità, che disprezzi e giudichi il mondo. Vuole una Chiesa povera, perché ricca solo dell’indicazione di Cristo, al servizio di Qualcosa di più grande, una Chiesa felice che non possiede niente e nulla ha da perdere perché guidata dal suo Signore.

Nel suo libretto Guarire dalla corruzione Bergoglio descrive alla perfezione l’errore di chi pensa di aver trionfato nella storia, di aver vinto nella storia, quella tentazione ben conosciuta anche nella storia del Movimento e di cui posso dire di essere stato protagonista e testimone: quello che il Corriere della Sera ha chiamato in prima pagina il rischio dell’egemonia, proprio a proposito del Meeting e di Cl.
Ecco io penso che anche il grande garbuglio della politica e dell’economia, la grande crisi dell’uomo contemporaneo, l’emergenza uomo, trovi una risposta imprevedibile e inaspettata nelle parole e negli atti di questo Vescovo di Roma che primo nella storia ha deciso di chiamarsi Francesco.
Per certi versi è una riposta piccola, perché sempre personale, non ideologica e quindi non cristallizzabile in un discorso, e allo stesso tempo è una risposta autentica, vera, che indica qualcosa di più grande. Una riposta di felicità, di positività, che non giudica il mondo. Che non disprezza l’acqua dove nuotiamo. Ma anzi la ama e quindi l’abbraccia.

Ha detto il Papa sull’aereo: «Chi sono io per giudicare?». Nel mondo contemporaneo dove tutti pensano di essere giudici e di dover pronunciare sentenze, nel mondo che – come dice il grande filosofo, neo hegeliano, Slavoj Zizek, – «siamo tutti finiti nel vicolo cieco etico-giuridico», Francesco rappresenta una luce nelle tenebre, la felicità di un modo di vivere che è insieme ironicamente distaccata e partecipata, individuale e collegiale.
Il Vangelo portato nelle strade del mondo d’ oggi. Un Vangelo autentico perché vissuto. Presto porterà frutti in tutti i campi, economia, cultura e politica comprese. Come la conseguenza di un piccolo grande miracolo, destinato a cambiare davvero tutto.
Mi viene in mente un episodio del Vangelo, gli apostoli superstiti sono sulla barca di Pietro dopo l’esecuzione e non sapendo bene che fare hanno provato a tornare alla vecchia vita, andare a pescare. Non prendono nulla, non funziona più. Poi avvistano una persona sulla riva del lago di Tiberiade, che fa loro riempire le reti di pesci. E uno dice: «È il Signore». Alla fine tutta la curiosità, tutto lo studio della vita, tutta la sensibilità della nostra esistenza sono rivolte a questo attimo, a poter dire: è il Signore che opera. E che ci vuole bene.
Se solo ce ne accorgiamo, cambia tutto.